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lunedì 15 ottobre 2012

Mugging The Muse

Mugging the muse, holly lisle
  • Titolo: Mugging the Muse, writing fiction for love AND money
  • Autore: Holly Lisle
  • Pagine: 238 pagine
  • Lingua: Inglese
  • Editore: Self-published
  • Letto su: Kindle







Oggi parliamo di un manuale di scrittura, che è passato sotto il mio radar grazie al post di Davide Mana su Strategie Evolutive (di cui consiglio caldamente la lettura).

Innanzitutto una premessa: forse potreste chiedervi: manuale di scrittura? Ma la scrittura non ha regole, non si può insegnare. Bè, quasi: la narrativa, in particolare quella di genere, ha certe regole che vanno rispettate non tanto perchè ce lo dicono delle leggi calate dall'alto, ma perchè se no la prosa e la comprensione del racconto risultano ostiche al lettore. Poi nulla vieta che l'autore esperto possa cercare di spezzare le regole per ottenere un effetto particolare o per sperimentare, però per farlo deve prima averle bene in mente. Avete presente il motto "Impara l'arte e poi mettila da parte"? Bè...è così.

Questo manuale (che si può acquistare al costo irrisorio di 82 centesimi su Amazon, in lingua inglese), spiega in maniera asciutta e franca, quasi brutale, cosa vuol dire scrivere per guadagnarsi da vivere. Più che concentrarsi sulla prosa in sè, però, il libro si concentra sulle motivazioni dell'aspirante scrittore: la Lisle, prendendo come spunto la propria esperienza personale, ci racconta che per riuscire a veder pubblicato il proprio manoscritto bisogna spazzare via dalla testa l'idea romantica dello scrittore che scrive sotto ispirazione semi-divina un capolavoro che verrà instantaneamente dato alle stampe con conseguente successo commericale e gloria imperitura.

L'aspirante scrittore deve applicarsi in maniera metodica e scrivere, scrivere, scrivere: secondo la Lisle la scrittura è soprattutto esercizio continuo e organizzazione. Soprattutto se lo si vuol fare per vivere. A conferma di ciò alla fine di ogni capitolo l'autrice propone un esercizio, che consiste nello scrivere un breve testo (150-250 parole), sull'argomento appena trattato.

Oltre ai consigli "motivazionali" e pratici (come si costruisce un personaggio interessante, come si scrive una scena, come si controlla il ritmo del racconto), la Lisle dà anche consigli professionali: come contattare un agente o una casa editrice, come affrontare le proposte di collaborazione. Secondo l'autrice inoltre sempre più necessaria sarà l'opzione del self-publishing, ovvero pubblicare da soli la propria opera a mezzo e-book. 

Dopo aver letto il manuale la voglia di scrivere a propria volta è tanta, nonostante gli avvertimenti della Lisle: diventare scrittori di professione è un percorso irto di difficoltà e frustrazione. Però a mio parere un aspirante scrittore italiano che legge il manuale (la Lisle è americana) deve tenere bene a mente una cosa: la Lisle nel suo manuale si riferisce al mercato dell'editoria anglo-sassone, che sia dal punto di vista linguistico che demografico, è infinitamente più grande di quello italiano.

Nel mondo-anglosassone oltre ai best-selleristi (che guadagnano cifre a sette, otto zeri) esistono anche scrittori, cosiddetti "mid-list", che vendono un numero di copie tali da potersi permettere di vivere solo di scrittura, ma senza guadagnare cifre da capogiro. La Lisle appartiene a quest'ultima categoria, che nel mercato italiano è però praticamente assente: a parte qualche sparuto nome noto (Fabio Volo, Camilleri, Umberto Eco e compagnia cantante), il resto degli autori vende un volume di copie tale da non potersi permettere di scrivere a tempo pieno. Quindi i consigli della Lisle sono preziosi per quanto riguarda l'obiettivo di vedere la propria opera pubblicata, ma forse valgono un po' meno per quanto riguarda l'obiettivo di vivere solo di scrittura. Ma non è colpa della Lisle e non è colpa dell'aspirante scrittore italiano: è colpa del mercato ristretto.

Tre stelle su cinque, consigliato soprattutto a chi ha sempre sognato di scrivere un romanzo. L'enfasi su sognato non è casuale: non basta sognare di scrivere un romanzo, bisogna farlo.

martedì 9 ottobre 2012

Studio Illegale

  • Titolo: Studio Illegale
  • Autore: Duchesne
  • Editore: Marsilio
  • Pagine: 318
  •  Letto su: Kindle



Mi sono imbattuto in questo libre grazie alle ghiottissime offerte giornaliere di Amazon. Per 0,99 euro valeva assolutamente la pena di dare un'opportunità a Duchesne, pseudonimo di Federico Baccomo: devo dire che non sono rimasto deluso. Ho scoperto solo dopo, leggendo le prime pagine, che il libro deriva dall'esperienza di un blog (ora defunto in seguito alla pubblicazione del libro).

E mi si è acceso un campanello d'allarme: avevo già avuto un'esperienza con un libro omonimo di un blog, l'Apprendista Librario. In quel caso il libro mi aveva completamente deluso: ripetitivo e piatto emotivamente e narrativamente parlando (forse un giorno di questi ne scriverò in maniera più approfondita). Partivo con la lettura con più di qualche pregiudizio.

Fin dal primo capitolo però si capisce che Duchesne ha stoffa: la descrizione di una festa popolata da avvocati milanesi e padovani è ironica, assurda al punto giusto e con un tocco di freddezza alla Bret Easton Ellis.
Nei capitoli successivi invece il romanzo si concentra soprattutto sulla vita lavorativa in uno studio milanese di avvocati d'affari, dove lavora il nostro protagonista (il libro è narrato tutto in prima persona): Andrea Campi. 
Andrea è un giovane avvocato (il classico avvocato "di belle speranze"), coscienzioso nel suo lavoro anche se non particolarmente brillante. Non fa una vita facile: spesso deve stare nello studio fino a tarda notte e deve fronteggiare scadenze piuttosto pressanti. Tuttavia Andrea non è mai lagnoso: ha raggiunto una sorta di equilibrio zen nei confronti del suo impiego. Sa che il contratto non verrà mai chiuso in tempo, sa che i suoi suggerimenti non verranno presi in considerazione ma riesce a mantenersi distaccato, a non farsi travolgere dai sacrifici che questo lavoro impone.

Non deve essere stato un compito difficile: per colpa dello studio legale Andrea è solo, non esce quasi mai con gli amici (gli unici che può definire tali sono suoi colleghi allo studio) e la sua ultima relazione importante si è interrotta proprio per colpa del tempo che "esige" il lavoro allo studio. Non che non ci siano soddisfazioni, lavorativamente parlando: durante il romanzo Andrea chiude due contratti, di cui uno particolarmente importante per il suo futuro. Però progressivamente cresce dentro di lui la sensazione di essere solo un ingranaggio in un sistema più complesso, di non avere una vita al di fuori dello studio, e questo vuoto interiore lo porterà a prendere in mano le redini del proprio destino.
Studio Illegale è un libro che scorre molto bene, che funziona: i personaggi sono credibili, la narrazione è ironica e funzionale a descrivere il mondo degli affari, pieno di tecnicismi rigorosamente in inglese e dove la capacità di fare networking (vedete? hanno contagiato anche me, la "rete di conoscenze") spesso conta di più che l'effettiva competenza legale, come dimostra il personaggio di Giovanni, il capo di Andrea, le cui frasi dense di retorica da marketing spicciolo e l'idiozia sono così dolorosamente reali.
Mi sono immedesimato nel personaggio di Andrea: pur lavorando in ambiti all'apparenza molto diversi (studio legale vs. laboratorio di ricerca), ho riconosciuto molti punti in comune. Spesso anche nel mio mondo si ha a che fare con scadenze molto strette e orari lavorativi non convenzionali. Si ha la sensazione di essere in balìa di una forza più grande di te, dove i propri sforzi sembrano ininfluenti a raggiungere l'obbiettivo finale.

Forse  non dipende dai nostri posti di lavoro, forse è diventato così il mercato del lavoro moderno: Studio Illegale è anche la riflessione di una generazione alle prese con un mondo del lavoro bisognoso di cambiamento; è anche la riflessione dei rapporti tra una generazione (la mia) e la generazione precedente (quella dei nostri genitori/capi), generazioni che hanno una visione del mondo molto diversa, sia perchè il mondo è cambiato (e sta cambiando), sia perchè i loro rispettivi obiettivi non sono congruenti, forse addirittura incompatibili. Studio Illegale riesce a descrivere tutto ciò senza cadere nella facile retorica, senza abusare di luoghi comuni.

Quattro stelle su cinque 

giovedì 4 ottobre 2012

Running Dog

Running Dog
  • Titolo: Running Dog
  • Autore: Don DeLillo
  • Traduttrice: S. Pareschi
  • Editore: Einaudi
  • Pagine: 260 pagine 
  • Letto su: Kindle





Vedete, il mio problema con Don Delillo è che è considerato un autore postmoderno. Anzi, uno dei capostipite della corrente postmoderna letteraria. E a me il postmoderno piace. O meglio, la situazione è un po' più complessa, ma certe opere postmoderne mi sono piaciute da impazzire (Infinite Jest, L'Opera Galleggiante), altre (Comma 22 su tutti) mi hanno lasciato freddo se non apertamente seccato. Ma le premesse del genere mi convincono, e mi trovano in sintonia.

Di DeLillo ho provato anni fa a leggere Underworld, che è considerato uno dei suoi capolavori, ma dopo il prologo ho interrotto la lettura: non mi ha proprio preso. Fortuna vuole che l'autore di origine italiana ha scritto svariati romanzi e grazie all'offerta di Einaudi sugli ebook in concomitanza dell'uscita di Cosmopolis, il film di David Cronenberg tratto dal romanzo omonimo di DeLillo, ho pensato di dargli una seconda possibilità con Libra e questo Running Dog. La scelta si è rivelata azzeccata.

Running Dog ruota interamente attorno ad un film: non un film qualunque, ma una potenziale bomba socio-storico-mediatica: una pellicola amatoriale girata nel bunker sotto Berlino nel 1945, durante gli ultimi giorni di vita di Hitler. Ma non una pellicola qualsiasi: un film porno, un'orgia che annovererebbe tra i protagonisti nientepopodimeno che il fuhrer in persona.

La presenza di questa fantomatica pellicola attira gli interessi di diverse persone: a partire dall'intermediario Newyorchese in possesso dei contatti giusti con i proprietari della pellicola, che fa da punto di incontro tra gli interessati: un giovane magnate dell'industria porno che se ne sta rintanato fisicamente dietro un magazzino e legalmente dietro una serie di società di comodo (e che ricorda molto il protagonista di Cosmopolis), un funzionario governativo di secondo grado che sta trattando l'affare per conto di un senatore degli Stati Uniti, avido collezionista di arte pornografica; il capo di un'agenzia d'intelligence deviata del governo chiamata CCP/URE.

Quando sono andato a vedere io il film eravamo in quattro, ma non so quanto avrei dato per vedere la faccia delle fan di Twilight alla fine del film.


Caso vuole che una giornalista della rivista antagonista "Running Dog" stia facendo un pezzo sul senatore, che guarda caso è a capo della commissione di indagine sull'operato della CCP/URE. La prima parte del libro si focalizza sulla ricerca della pellicola (esiste veramente? contiene veramente quello che si vocifera?) e ai tentativi da parte della giornalista di saperne di più sui rapporti tra senatore e CCP/URE, che sono un coacervo di doppiogiochisti e agenti infiltrati. Nella seconda parte l'importanza della ricerca della pellicola passa in secondo piano: la volontà di possesso del film innesca una sequenza inevitabile di eventi per tutti i personaggi.

Ad una prima analisi il libro potrebbe essere considerato come un semplice thriller: clima da complotto paranoide, reduci di guerra assetati di potere, mafia, politici corrotti. In realtà lo stile di DeLillo e il suo modo di narrare rendono il romanzo più una grossa riflessione sull'ossessione del mondo occidentale in generale e Americano in particolare per il potere, per il fluire degli eventi. 

In una magistrale descrizione di oggetti per la manutenzione delle armi, da fuoco e da taglio, si ritrova la concezione di DeLillo per la scrittura: il personaggio nel romanzo sostiene che il nome degli strumenti è importante, la conoscenza dei nomi li fa funzionare meglio. Nello stesso modo la prosa di DeLillo è particolarmente curata, ogni parola finemente cesellata tra le altre. 

In conclusione un romanzo veramente solido, il cui intento allegorico è apparentemente mascherato dalla trama da thriller cospirazionista. L'unico neo è che alla fine del libro DeLillo sembra faticare nel tirare le somme dei diversi personaggi, alcuni dei quali vengono liquidati frettolosamente.

Tre stelle su cinque 

mercoledì 3 ottobre 2012

Dove stiamo volando


dove stiamo volando  

 E' brutto iniziare un blog con una stroncatura, ma questo è quello che ho letto recentemente.
Qualche mese fa sono andato con la mia ragazza a Genova, a vedere una mostra di Van Gogh. Ad un certo punto passiamo davanti all'edicola e, quasi meccanicamente, butto un occhio allo spazio dedicato agli Urania. Mi cade l'occhio sulla copertina che vedete qui sopra. 

"Vittorio Curtoni, questo nome non mi è nuovo". Ripesco da qualche angolo della memoria: curatore della rivista di fantascienza Robot. Mi avvicino, prendo il libro e guardo la quarta di copertina: è compaesano (eravamo entrambi di Piacenza. Uso il passato perchè lui non è più tra noi, e io non sono più a Piacenza). La combo campanilismo-fantascienza me lo fa acquistare al volo.

Durante il viaggio di ritorno in treno, mi metto a sfogliare il volume, che appartiene alla collana "Urania Collezione": contiene un romanzo di circa 120 pagine (gli inglesi lo chiamerebbero "novelette") che dà il nome al volume, sei racconti e un saggio dal titolo esplicativo "La mia love story con la fantascienza" in cui Curtoni racconta la propria carriera lavorativa nel campo dell'editoria italiana di fantascienza. Ai testi di Curtoni si aggiungono una esaustiva bibliografia e il ricordo del curatore di Urania, Giuseppe Lippi, che dello scrittore piacentino recentemente scomparso era stato collega di lavoro e amico.

Decido di iniziare dal saggio: bellissimo,  scorre che è un piacere e racconta di come un Curtoni liceale e con la passione per la fantascienza sia riuscito a farlo diventare un lavoro. Il contesto è quello dell'Italia degli anni '60-'70, delle prime avventure editoriali in campo fantascientifico (considerato anche allora "robaccia di serie B"), delle prime convention dedicate. Curtoni racconta tutto dal suo punto di vista e senza peli sulla lingua: i propri successi e fallimenti, i litigi e gli errori e infine la sua uscita dalla scena pubblica, negli anni '90. Ne emerge un ritratto sincero, ma soprattutto una passione sconfinata per la fantascienza.

Con entusiasmo mi accingo quindi a leggere il romanzo e i racconti. E passano dei mesi. Ho infatti ripreso in mano "Dove stiamo volando" solo qualche settimana fa. Quando di un libro ho aspettative molto alte tendo infatti a rimandarne la lettura in attesa di un fantomatico "momento perfetto" (ne parlerò più approfonditamente in un post dedicato): naturalmente questo momento non arriva mai e finisco per arretrare il libro nella pila dei volumi da leggere.

Per "Dove stiamo volando" decido finalmente di rompere gli indugi e mi addentro nella lettura: delusione totale!

L'incipit di "Dove stiamo volando" (il romanzo) è rappresentativo dello stile di scrittura che Curtoni manterrà per tutta l'opera: raccontato in prima persona, con una prosa barocca che abbandona spesso e volentieri la descrizione di ciò che sta avvenendo per divagazioni poetico-oniriche e giudizi morali.

La storia è piuttosto lineare, ma del resto non è il fulcro del romanzo: Charles è un mutante (la cui mutazione verrà rivelata solo a metà storia) che decide di andare a vivere in una comune di mutanti a Nuova Parigi, detta il Ghetto (il cui nome già non invoglia al trasferimento in massa). Purtroppo per lui decide di andare nel posto sbagliato nel momento sbagliatissimo. La storia è ambientata in un'Europa post-Olocausto nucleare, in cui umani e mutanti vivono non proprio in sintonia.

La sensazione che si ha, leggendo il romanzo, è che Curtoni voglia, nell'ordine:

  1. Far vedere quanto è bravo a scrivere frasi ad effetto ("Guarda mamma, senza mani")
  2. Scrivere un libro di fantascienza che sembri un romanzo mainstream, come se si vergognasse di ammetterne il genere
Il risultato finale è un romanzo molto pretenzioso, il cui autore vuole disperatamente essere preso sul serio in quanto scrittore tout-court, non in quanto scrittore di fantascienza. I casi sono due, o si vergogna di appartenere al genere, oppure vuole disperatamente dimostrare che in un romanzo di fantascienza si può calcare la mano sull'aspetto formale, invece di raccontare e basta. Data la professione di amore per il genere che si evince dal saggio, propendo per la seconda ipotesi.

Forse il mio giudizio negativo risente anche di una mancata prospettiva storica: lo scritto è del 1972. In quegli anni la fantascienza era ancora vista, in Italia, come "navicelle spaziali e alieni tentacolari verdi" (non che la visione sia cambiata di molto, ma questa è un'altra storia). Naturale quindi che autori come Curtoni cercassero di allinearsi agli autori anglosassoni e osare di più dal punto di vista stilistico e filosofico. Il risultato però è fin troppo eccessivo: Curtoni sacrifica la narrazione sull'altare della poetica, ma lo fa in maniera vistosa. Per dirla con un'espressione in inglese: "He tries too hard".

Nei sei racconti la situazione migliora dal punto di vista della narrazione. Ho apprezzato molto la scelta, in alcuni racconti, del punto di vista multiplo per raccontare la storia. Anche qui è presente un certo gusto per la prosa barocca e per una narrazione opaca: spesso è faticoso capire cosa sta succedendo esattamente. Ma in questi racconti l'artificio narrativo funziona meglio che nel romanzo (penso soprattutto al racconto "La sindrome lunare"). Belle anche alcune chicche meta-narrative che Curtoni semina qua è là per ricordarci che stiamo leggendo un'opera di fiction e per scherzare sulla natura della parola scritta.

Il grosso limite dei racconti, almeno per me, è che le vicende trattate non sono abbastanza interessanti ("Ritratto del figlio"), o non riescono ad essere raccontate in modo che ci appaiano tali ("L'esplosione del minotauro"). A volte Curtoni si abbandona ad un voluto ermetismo ("La volpe stupita"), mentre in "Vento dal mare" l'elemento soprannaturale ed un pizzico di Horror non riescono a salvare un racconto che è soprattutto un esercizio di racconto realistico.

L'impressione finale di questa antologia è che a Curtoni, la cui occupazione principale era quella di traduttore ed editor, manchi quel quid che hanno i grandi scrittori e che non riesca a colmarla grazie alla sua cultura del genere. Oltre ad un incredibile senso di inferiorità nei confronti della letteratura in senso "lato"

In conclusione, con grande amarezza ho dovuto dare 1 stella su 5.
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